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Sostenibilità e servitizzazione: un’occasione cercata da 35 anni

Nel 1987 fu scritta la definizione convenzionale di sostenibilità nel Rapporto «Our common future» (Il futuro di tutti noi) delle Nazioni Unite, meglio conosciuto come Rapporto Brundtland, dal nome del presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo.

Nel rapporto troviamo in modo chiaro il concetto di sviluppo sostenibile: “Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

Un anno dopo, nel 1988, venne scritto il primo paper accademico per circoscrivere la servitizzazione da Vandermerwe e Rada “Servitization of Business: Adding Value by Adding Services”. Nell’estratto del paper si legge: “Sempre più aziende in tutto il mondo stanno aggiungendo valore alle loro offerte aziendali di base attraverso i servizi”.

Due righe ben scritte e ben assestate per accendere la fantasia di alcuni imprenditori all’epoca illuminati.

La sostenibilità diventa mainstream nel 2015 con il succedersi dell’adozione a livello internazionale dell’Agenda 2030 dell’ONU per lo Sviluppo Sostenibile, incentrata sui 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, e della conferenza sul clima di Parigi (COP21) in cui 195 Paesi hanno sottoscritto il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici.

Senza dimenticare l’enciclica “Laudato Sì” di Papa Francesco sulla cura della casa comune.

Volevo proprio parlare di come sostenibilità e servitizzazione siano concetti intimamente legati ed uso con consapevolezza l’avverbio perché, con la lettura del libro di Roberto Siagri “La servitizzazione”, ne ho capito meglio la stretta connessione.

Parto dal patto stretto insieme ad altri 3000 giovani con Papa Francesco che ha richiamato giovani economisti, imprenditori e change maker da tutto il mondo per cambiare l’attuale economia e dare un’anima all’economia di domani.

Proprio nell’enciclica Laudato Sì è stato sottolineato come oggi “tutto” è intimamente connesso e, la salvaguardia dell’ambiente, non può essere disgiunta dalla giustizia verso i poveri e dalla soluzione dei problemi strutturali dell’economia mondiale.

La sfida alla quale siamo chiamati è correggere i modelli di crescita incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente, l’accoglienza della vita, la cura della famiglia, l’equità sociale, la dignità dei lavoratori, i diritti delle generazioni future.

Belle intenzioni e lodevoli intenti corrono il rischio di rimanere tali se non accompagnati da strumenti e mezzi per trasformarli in realtà. Gli eroi non siamo noi, l’eroe del nostro tempo è anche in questo caso il digitale come pilota del progresso tecnologico a nostra disposizione per trovare soluzioni creative alla nostra sfida. Spetta a noi il compito concettuale di capire come poter usare la tecnologia per risolvere le questioni del nostro tempo.

I dati messi a disposizione dalla progressione tecnologica facilitano il passaggio dalla vendita del prodotto alla PERFORMANCE ECONOMY, l’economia delle prestazioni spiegata da uno dei padri fondatori dell’economia circolare, Walter Stahel. Un passaggio da un’economia industriale dove acquisto un’automobile per soddisfare il mio bisogno di mobilità, qualche minuto al giorno per lasciarla il resto del tempo resta ferma nel posteggio o in garage, ad un’economia della prestazione dove soddisfo il mio bisogno di mobilità solo per il tempo strettamente necessario allo spostamento al prezzo di una tariffa (es. al chilometro?, a tempo?, a giri delle ruote?). Secondo Stahel questo concetto sposta l’attenzione dei produttori dal “fare le cose bene” al “fare le cose giuste”.

Ad “Economy of Francesco” stiamo cercando in 12 tavoli di lavoro delle soluzioni che permettano la crescita economica e il soddisfacimento di bisogni, disaccoppiati dallo sfruttamento delle risorse senza lasciare indietro nessuno.

La servitizzazione disaccoppia la crescita dei ricavi dall’utilizzo delle risorse naturali, abbandona il modello industriale fondato sui volumi dei prodotti venduti, sull’utilizzo delle risorse e sul consumo dell’energia verso un modello costruito sui bisogni intangibili, sul valore degli oggetti tangibili.

Ne parlavo con il mio professore della tesi poco tempo fa di come una giacca in tweed, una vera e propria armatura di lana confezionata e realizzata per durare anni, sia completamente inadatta a soddisfare l’esigenza consumistica di alcune generazioni come Millennials e Generazione Z.

Con la servitizzazione invece il capo di abbigliamento diventa un servizio, non compro più la giacca, non ne divento il proprietario, ma compro il suo valore cioè tenermi caldo ed apparire, bisogno materiale e bisogno immateriale dove risiede il maggior valore.

La servitizzazione è un ritorno all’essenziale.

C’è un duplice risvolto nel servitizzare una giacca in tweed. Il primo immediato pensiero è all’ambiente, una giacca in tweed dura 20 anni, molto più sostenibile dell’impostazione consumistica del “fast fashion”. Il secondo aspetto è legato al costo sostenuto dal consumatore che paga solo l’uso e non il possesso, solitamente un canone periodico, a questo punto ad un costo molto più accessibile rispetto al prezzo di acquisto del bene. Non dovrei nemmeno preoccuparmi di portare la giacca al lavasecco a fine stagione perché la manutenzione del bene sarebbe a carico del proprietario e quindi del soggetto che ha “noleggiato” il capo.

Pensate ora se quella stessa giacca lavata, igienizzata e disinfettata venisse “noleggiata” ad un nuovo utilizzatore nel periodo di inutilizzo del primo. La stessa giacca sarebbe così condivisa tra due persone e pagata solo per l’effettivo tempo di “noleggio” e di usura.

Il minor costo del bene lo rende maggiormente accessibile ad una platea più ampia di consumatori cioè l’economia della prestazione, dei servizi, abbatte le barriere all’entrata dovute al costo ed aumenta la partecipazione e il coinvolgimento delle persone. Ecco perché si dice che il mondo dei servizi è sostenibile e più democratico del modello della vendita tradizionale. Se ci fermiamo a valutare il prezzo del bene si può affermare che la servitizzazione è inclusività.

Nulla di nuovo, nessuna innovazione rivoluzionaria, stiamo parlando di due modelli di sviluppo, sostenibile e servitizzato, nati più o meno 35 anni fa, ma quello che oggi li rende attraenti e praticabili sono le tecnologie digitali, strumenti che possiamo usare per “correggere i modelli di crescita incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente, l’accoglienza della vita, la cura della famiglia, l’equità sociale, la dignità dei lavoratori, i diritti delle generazioni future” come auspicato nella lettera rivolta ai giovani economisti, imprenditori e imprenditrici di Economy of Francesco di tutto il mondo da Papa Francesco.

…Continua con le altre forme di sostenibilità della servitizzazione

Tommaso Cuzzolin

Advisor Industriale